LA FORZA DELLO STORYTELLING
Come le storie creano la società
Media Art:
Il primo assioma della comunicazione è che non si può non comunicare: questo è vero più che mai in un’epoca come la nostra, affetta, se così si può dire, da bulimia di comunicazione.
Proprio per questo, oggi forse più che mai, è importante andare in nuce alla questione e chiedersi perché sia così importante per l’Uomo narrare storie, in quanto esse sono da sempre il suo migliore strumento.
Perché raccontiamo storie
L’Homo Sapiens non è sempre stato l’unico uomo ad abitare la Terra. Lo è soltanto da un tempo relativamente breve. Infatti, da circa due milioni di anni fino a 10.000 anni fa, ha condiviso gli spazi con altre specie del genere Homo. Basti pensare che 100.000 anni fa c’erano ben sei differenti specie di esseri umani che coesistevano tra loro in tutto il mondo!
Ma, ogni volta che l’Homo Sapiens si insediava in un nuovo territorio, la popolazione nativa dopo un po’ si estingueva. Non si sa ancora bene il motivo, e il dibattito è ancora molto acceso.
Quello che fu però di primaria importanza, nella sopravvivenza dell’Homo Sapiens su tutte le altre specie umane, fu la sua capacità di saper stare all’interno di gruppi nettamente superiori in numero, riuscendo a cooperare in maniera funzionale tra individui che spesso non si conoscevano nemmeno: in questo la sua capacità di linguaggio ha giocato un ruolo fondamentale.
Per capacità di linguaggio non si intende tanto quella di trasmettere in maniera più o meno complessa informazioni riguardanti fatti reali (per es. avvertire di un pericolo imminente – in questo balene ed elefanti hanno altrettante qualità impressionanti) quanto di creare informazioni su fatti che non esistono. Ovvero raccontare miti. Leggende. Storie.
E perché lo fa?
Facciamo un passo indietro. Gli altri animali, esseri umani non Sapiens compresi, riescono a rimanere coesi soltanto in gruppi di pochi individui, i quali devono avere tra loro un legame intimo e di fiducia per riuscire a cooperare. Ovvero, per funzionare, tutti gli individui del gruppo si devono conoscere molto bene.
L’Homo Sapiens, essendo animale sociale, vede nella cooperazione la sua arma di sopravvivenza e riproduzione maggiore. Ha la necessità di vivere in gruppi numerosi in cui è fisiologicamente impossibile conoscersi tutti. Ha quindi il bisogno di creare un legame comune che non faccia implodere il precario equilibrio e che invece ne dia un ordine: quale legame migliore se non quello dato dal mito, dalla leggenda, dalla religione? Insomma, da una realtà che possa essere immaginata collettivamente e che non abbia basi reali?
Parallelamente all’uso del linguaggio parlato, lo fa, da sempre, anche attraverso l’uso delle immagini (pensiamo alle pitture rupestri, le quali pare fossero legate anch’esse alla religione, come dono fatto agli dèi, e avessero vari significati propiziatori).
Questa necessità di creare un “tessuto connettivo” però, allo stesso tempo, può nascere anche come tentativo di risposta alle famose Grandi Domande (es. Chi siamo? Da dove veniamo? Dove stiamo andando? Che senso ha tutto ciò?), di scovare una Verità, di, citando David Mamet, “riordinare in qualche modo l’universo in una forma comprensibile”.
Creare storie non per dare risposte, ma per porre l’accento sull’umana situazione collettiva. E forse abbiamo bisogno di raccontare storie anche per sentirci un po’ meno soli.
Struttura della storia
Come abbiamo visto, la storia è da sempre il collante della collettività.
Pertanto drammatizzare fa parte della natura umana: se ci pensiamo bene drammatizziamo tutto, anche le vicende più impersonali (come, per esempio, il tempo metereologico). Questo perché tendiamo a vedere la nostra vita come una rappresentazione che ha noi stessi come protagonisti.
La struttura drammatica non è un’invenzione arbitraria: fa riferimento alle modalità attraverso le quali il cervello umano percepisce, decodifica e riordina gli eventi. Avvenimento, elaborazione, scioglimento dell’intreccio; tesi, antitesi, sintesi; ragazzo incontra ragazza, ragazzo perde ragazza, ragazzo conquista ragazza; atto primo, atto secondo, atto terzo.
Il cervello umano infatti non percepisce la casualità: ha bisogno di riordinare gli avvenimenti secondo i principi di causa-effetto, formare ipotesi e da queste elaborare delle informazioni per poi agire in un modo che definisce opportuno. È il nostro meccanismo di adattamento e perciò di sopravvivenza.
Nel cinema e nelle arti visive, è assolutamente naturale che l’uomo cerchi di mettere in relazione delle immagini non connesse tra loro per formare una storia, perché abbiamo bisogno che il mondo abbia senso.
Le immagini che, nella loro successione, non raccontano nulla, dovranno essere di volta in volta più interessanti, più originali, più sbalorditive in sé per sé, per non perdere l’attenzione dello spettatore, il quale non è stupido, anzi, e si annoia molto facilmente.
Se invece la storia c’è, lo spettatore seguirà lo scorrere degli eventi senza aver bisogno né di immagini né di spiegazioni brillanti, anzi con il solo interesse di capire cosa succederà. Se una storia funziona, gli spettatori e l’autore procedono di pari passo, e la loro psiche e il loro subconscio saranno intimamente connessi.
La struttura classica della storia è quella aristotelica dei Tre Atti, e le vicende che il protagonista, ovvero l’Eroe, vive nell’arco di questo periodo di tempo non sono altro che il suo Viaggio alla ricerca di qualcosa che gli manca. Sì perché il protagonista, per essere tale, deve essere mancante: deve, cioè, avere uno scopo, e in virtù di questo, deve fare determinate azioni per cercare di raggiungerlo.
Lo scopo però non deve essere delineato in maniera precisa e inequivocabile. Più generico sarà e più lo spettatore potrà identificarsi con il protagonista: ci penserà lui a colmare i vuoti che l’autore ha deliberatamente lasciato. Si pensi per esempio al MacGuffin hitchcockiano. O alle fiabe. Il principe sul cavallo bianco non è né alto, né basso, né magro né paffuto. Il principe sul cavallo bianco è il bambino che legge.
A che punto siamo
Parlare di storytelling oggi significa anche capire cosa significa raccontare storie in un’epoca in cui apparentemente non si smette mai di comunicare.
È bene fare attenzione come determinati “contenitori” social, uno fra tutti Instagram, rischiano di far perdere unicità alle opere, oltre ad omologarle sia in termini di forma che di contenuto, mettendole tutte allo stesso livello di importanza: la poesia di un grande poeta classico rischia di passare più inosservata dell’ultima storia di uno degli influencer più in voga del momento
Invece le storie non sono tutte uguali, sebbene ci sia il rischio che possano sembrarlo, se poste all’interno di un flusso produttivo incessante.
Si possono quindi fare tre macro distinzioni: il racconto artistico, l’intrattenimento commerciale e, diciamo così, “la via di mezzo”, che è una commistione dei primi due.
Il racconto artistico ha una struttura aperta, niente di assunto è dato al pubblico che è invece chiamato a partecipare al processo creativo: l’opera lo costringe a porsi in uno stato attivo, a farsi delle domande, a crearsi un proprio punto di vista. A mettersi in discussione.
Lo schermo, inteso come supporto fisico, non è più il protagonista indiscusso, e altre modalità di fruizione vengono indagate dagli autori.
Spesso l’opera d’arte non è di facile fruizione, e richiede ulteriori visioni successive, una più lunga ed elaborata digestione. Il rischio, però, è che talvolta l’artista e il fruitore “si perdano per strada”…
L’intrattenimento commerciale, invece, ha una struttura chiusa: dà al pubblico quello che egli si aspetta di ricevere. Soddisfa i nostri bisogni preconfezionati, ci stimola in maniera convenzionale, prevedibile. Da parte nostra, noi spettatori paghiamo proprio per essere manipolati, non di certo per lavorare su noi stessi o partecipare al processo creativo insieme all’autore. Vogliamo essere passivi: paghiamo per delegare a qualcun altro il controllo sulle nostre emozioni. Paghiamo qualcun altro per farci ridere, per farci sorprendere, per farci piangere.
La “via di mezzo”, come si è già detto, è un compromesso tra le due precedenti direzioni: vede la presenza di un committente, che, in linea di massima, dà delle precise direttive all’autore, garantendogli però uno spazio entro il quale può metterci del proprio.
Il prodotto che ne deriva porta con sé un significato che arriva in maniera abbastanza chiara e diretta al fruitore, minimizzando il rischio di un’eventuale incomprensione, lasciandogli però l’opportunità di un ragionamento e una riflessione postumi.
Alle volte accade inoltre che il pubblico venga incoraggiato ad intervenire in maniera diretta con l’opera (come avviene pure nel racconto di tipo artistico), dando vita a diversi modi nuovi di comunicare, maggiormente interattivi.
Ma di questo ne parleremo nel prossimo capitolo.
Qui il video: Welcome Home by Spike Jonze — Apple
Irene Toniolo
Regista e Artista Visuale
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Bibliografia
Emilio Garroni, Creatività, Quodlibet, 2009
Marshall McLuhan, Gli strumenti del comunicare, Il Saggiatore, 2008
Robert McKee, Story, Omero, 2010
Umberto Eco, Sull’arte, La nave di Teseo, 2022
David Mamet, I tre usi del coltello, Minimum Fax, 2010
Yuval Noah Harari, Sapiens. Da animali a dèi, Bompiani, 2014
François Truffaut, Il cinema secondo Hitchcock, Il Saggiatore, 1997
Gene Youngblood, Expanded Cinema, Clueb, 2013